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“La notte del lavoro narrato” fa tappa a Villa Fernandes
01-04-2021 11:30

di Ileana Bonadies

In attesa della nuova edizione della rassegna diffusa che il 30 aprile, in ogni luogo d’Italia, celebra il lavoro e i suoi protagonisti, e che quest’anno vedrà partecipare anche la rete associativa del nostro progetto Villa Fernandes – Un bene comune, abbiamo intervistato il suo ideatore e instancabile organizzatore: Vincenzo Moretti, sociologo e scrittore.

Foto di Alessio Manfredini

Quest’anno si celebra l’ottava edizione de la notte “più narrata di sempre”, ma facciamo un passo indietro: come è nata questa sua idea? Da quale necessità/percezione/intuizione è partito?

Dal punto di vista della curiosità, della cronaca, La notte del lavoro narrata è nata in un treno, di ritorno da Reggio Emilia nel 2013. L’amica che gestiva il bed e breakfast che mi ospitava mi aveva parlato la mattina precedente, a colazione, di Reggionarra, mi aveva detto dei percorsi di formazione per genitori, dei momenti narrativi nelle scuole o nel corso di eventi pubblici, della Notte dei Racconti a Febbraio e del week-end di Maggio in cui ReggioNarra trasforma Reggio Emilia nella città delle storie.

Il lavoro è il filo conduttore della mia vita, il treno corre veloce tra una stazione e l’altra, racconto storie di lavoro da una vita, il link tra ReggioNarra, i lavoratori narrano, il lavoro narrato, la notte del lavoro narrato, il 30 aprile, la notte che porta al Primo di Maggio: mi arriva come se non aspettassi altro. 

A settembre 2013 con Alessio Strazzullo e Giuseppe Jepis Rivello, l’anteprima nazionale a Caselle in Pittari e nel 2014 c’è la prima edizione. È un successo strepitoso, da lì in poi non ci siamo fermati più.

Ecco, se oggi dovessi riassumere in un pensiero solo il senso della nostra nuttata ’e sentimento direi che La notte del lavoro narrato è prima di tutto questo, la voglia delle persone di ritrovarsi e di riconoscersi a partire dal lavoro. Ci incontriamo ogni volta tutti insieme, tutti (quasi) alla stessa ora, ognuno con chi vuole, nelle case, nelle scuole, nelle biblioteche, nelle associazioni, nei bar, nelle palestre, per leggere, narrare, ascoltare, cantare, in vario modo condividere, storie di lavoro. Questa della notte del lavoro narrato è insomma una storia fatta di tanti racconti sul modello de Le mille e una notte o de Lo cunto de li cunti, storie connesse l’una all’altra da tre idee guida, tre parole chiave, tre hashtag come ci piace dire di questi tempi: lavoro, narrazione e partecipazione.

Lavoro, perché il lavoro è importante, non solo dal punto di vista materiale ma anche da quello immateriale.

Narrazione, perché le belle storie, soprattutto quando sono vere, aiutano a crederci, e, dunque, aiutano a farcela e a cambiare le cose.

Partecipazione, perché come sappiamo partecipare è un verbo di cui nessuna democrazia può fare a meno. Vede, troppo spesso si dice tanto per dire, invece nel corso della nostra notte ogni partecipante è davvero protagonista con la sua storia, la sua lettura, il suo ricordo, la sua citazione. 

Le confesso che quando l’ho pensata la Notte del Lavoro Narrato neanche me lo sognavo che sarebbe diventata così bella e partecipata.

“Raccontare l’Italia attraverso il lavoro ben fatto” è il claim dell’iniziativa: dopo 8 anni quale immagine sta emergendo del nostro Paese in tema di lavoro? In qualità di coordinatore e di sociologo riscontra evoluzioni o involuzioni?

Se posso, vorrei innanzitutto cogliere questa bella occasione per dire ai suoi lettori che #lavorobenfatto (www.lavorobenfatto.org) è oggi un movimento culturale, un format, un manifesto, un magazine, un blog, un approccio che racconto in giro per l’Italia e un libro che ha appena compiuto un anno e che per quanto mi riguarda è il libro di una vita. Dopo di che aggiungo che se proprio dovessi scegliere una parola chiave per definire questo ultimo decennio alla voce lavoro direi “cambiamento”, o per essere più precisi “accelerazione dei processi di cambiamento”, da tutti i versanti, organizzazione, produzione, distribuzione, logistica, rapporto uomo macchina. Per fare un solo esempio, su un mercato a me molto caro, quello del libro, penso all’impatto che stanno avendo sui negozi per così dire tradizionali le vendite online, non solo da parte di Amazon, e a come sta cambiando anche l’offerta degli autori con la diffusine del mercato dell’auto pubblicazione. Dopo di che i titoli sono quelli noti, rapporto tra uomo e macchina, tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, il dominio dei signori degli algoritmi e la difficoltà sempre maggiore a fare valere il proprio punto di vista autonomo nell’ambito dello spazio pubblico.

Sta qui a mio avviso l’importanza e il senso di fare bene quello che si fa, qualunque cosa si fa. Nel fatto che qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha senso, proprio come recita il primo articolo del Manifesto del lavoro ben fatto. E nel fatto che fare bene quello che dobbiamo fare è parte di un approccio più generale fondato sulla consapevolezza della necessità di prenderci cura di noi stessi e del mondo che abitiamo, un mondo nel quale, come mi piace dire, il lavoro vale più dei soldi, e quello che sappiamo e sappiamo fare vale più di quello che abbiamo. Un mondo in cui le persone pensano e fanno, sempre, insieme, perché come ha raccontato Sennett fare è pensare, proprio così, con la è verbo, con l’accento. Se perdiamo il “vizio” di pensare, se ci condanniamo a vivere un presente dove la nostra soglia di attenzione è di 8 secondi rischiamo di finire come nel bellissimo libro di Orwell, 1984, e francamente è una fine che non mi piace.   

Con la pandemia che ormai condiziona le nostre vite da più di un anno, l’ambito del lavoro è stato profondamente danneggiato: cosa vorrebbe emergesse il prossimo 30 aprile dalle narrazioni che saranno condivise e a quali strumenti crede sia necessario attingere dalla società civile per contribuire in maniera fattiva alla risoluzione del problema?

Guardi, secondo me, mi posso sbagliare, è solo la mia opinione, il punto non è la pandemia che c’è, dalla quale usciremo danneggiati, feriti, ammaccati, ma usciremo; il punto è come allunghiamo l’ombra del futuro sul nostro presente, come  evitiamo che ci siano altre pandemie, che magari non saranno pandemie ma che possono avere effetti altrettanto disastrosi, o anche di più, penso solo per nominare qualche titolo a cose come scioglimento dei ghiacciai, scaricamento delle montagne, innalzamento del livello del mare. Per me in questo ambito le parole chiave sono tre, tre c, come nel caso del caffè: cambiamento, condivisione e consapevolezza.

Ecco, mi piacerebbe che il 30 Aprile, insieme alla gioia del raccontare le proprie storie, quelle delle proprie famiglie, delle proprie comunità, venisse fuori, a partire dal lavoro e dal suo valore, questo bisogno di cambiamento, di condivisione e di consapevolezza. E, in questo contesto, il ruolo della società civile, è assolutamente indispensabile. C’è tanto da seminare, da zappettare il terreno, da curare le pianticene e da accompagnarle nella loro crescita. Se non ora, quando? E se non noi, chi?

Se dovesse far cambiare idea a chi non crede che il lavoro sia solo un mezzo per ottenere ma soprattutto una possibilità per essere, quali sono le tre cose su cui lo inviterebbe a riflettere (prove alla mano)?

La prima è che “una vita senza lavoro è una vita senza significato, pure se tieni i soldi”, che è pure il titolo di uno dei miei articoli di maggiore successo sul mio blog. Qui l’esempio più forte è quello di Lorenzo, il muratore che ha salvato la vita a Primo Levi nel campo di concentramento di Auschwitz, e in merito al quale lo stesso Levi nel corso di una conversazione con Philip Roth nel 1986, afferma:
“Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”. Ecco, quello che penso io è che solo il lavoro abbia queste caratteristiche, sia in grado di darti questa consapevolezza e questa possibilità: la consapevolezza che ciascuno di noi è quello che sa e sa fare, la possibilità di affermare la nostra dignità di uomini e di donne a prescindere dal contesto nel quale ci troviamo.

La seconda è che se ognuno di noi fa bene quello che deve fare funziona tutto meglio. È semplice ma non banale, ognuno ci può arrivare bene da sé: se il medico, il muratore, lo spazzino, la maestra, l’architetta, il ricercatore, l’operaia, fa bene il proprio lavoro, e con loro tutti quelli che fanno gli altri lavori, funziona tutto. Non servono altre condizioni, basta questo. La stessa cosa non si può fare con i soldi, o per comando.

La terza è un omaggio a mio padre, che diceva “Guagliò, quando una cosa la fai bene, la sera, quando metti la capa, la testa, sopra al cuscino, stai contento”. Basta provare, funziona proprio così.